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  • Immagine del redattoreMaria Grazia Tiberii

Alla scoperta di Interamnia ... Teatro Romano

Aggiornamento: 12 lug 2019


Sarebbe un errore pensare che i romani amassero solo le scene truci e sanguinarie, uno dei loro passatempi preferiti era il teatro e, ovviamente, Interamnia aveva il suo.


Certamente Sor Paolo ripensa con nostalgia all’edificio che si ergeva maestoso accanto all’anfiteatro, alle tragedie ispirate a racconti mitologici o ai mimi che mettevano in scena situazioni della vita quotidiana e familiare in chiave comica ... O forse preferiva le sublimi commedie latine.


Interamnia si era sviluppata in due fasi, dal nucleo originario (zona tra Porta Reale e Largo Melatini) la città si era estesa verso ovest usando una strada extraurbana (Corso Cerulli) come cardo del nuovo centro.

Il teatro, databile al I secolo dopo Cristo, si ergeva ai margini sud-occidentali, probabilmente all’interno delle mura, nel punto in cui si giungeva in città dal viottolo che la collegava con la via #Caecilia.

Oggi dello splendido edificio rimane solo una porzione delle mura perimetrali in laterizio oltre a frammenti, posti a tre metri dall’attuale livello stradale, che fanno intuire una struttura che poteva accogliere da 3300 a 4500 spettatori, sulle gradinate che attorniavano una cavea dal diametro di 78 metri addossata a un pendio naturale. Le gradinate sorrette da una struttura cementizia, con pietre di fiume nei paramenti, racchiusa da venti arcate in travertino.


Epigrafe con dedica di Gabriele D?Annunzio

A calcare le scene non erano attori paragonabili alle odierne star di Broadway, si trattava soprattutto di schiavi che si esibivano indossando grandi maschere di legno o tela con un’apertura in metallo all’altezza della bocca. Ogni maschera evocava una diversa emozione del personaggio e grandi copricapi di pelo con differenti acconciature facevano capire il suo ruolo.




Dopo la caduta dell’Impero Romano il teatro fu dimenticato e nuove costruzioni occuparono i suoi spazi. Nel 1918 lo storico e archeologo Francesco #Savini scavando alla ricerca dei resti dell’anfiteatro rinvenne parti significative del frontescena.


La scena, in arenaria e peperino, aveva due ingressi laterali per le hospitales e una grande esedra centrale per la porta regia. Possiamo immaginare lo splendore dei marmi usati per la pavimentazione e lo splendore delle decorazioni; con alcuni frammenti è stato parzialmente ricostruito, all’interno del Museo Archeologico, l’angolo orientale della grande esedra centrale.


Nel 1934 il podestà Giovanni Lucangeli avviò la demolizione degli edifici sorti su parte del Teatro per distinguerlo dal limitrofo anfiteatro. Dopo anni di abbandono dal 2007 sono in corso (molto lentamente!) le procedure per la demolizione di “Palazzo Adamoli” per poter tornare ad ammirare altre porzioni del monumento.


In passato la città era ingentilita dalla presenza di uno splendido "Teatro Comunale" nel Corso San Giorgio, progettato dall'architetto Nicola Mezzucelli e inaugurato la sera del 20 aprile 1868 con l'opera "Il ballo in maschera" di Giuseppe Verdi.

La sala, dotata di un'acustica eccezionale aveva 608 posti a sedere in un ambiente a forma di ferro di cavallo con 56 palchi disposti su tre ordini, nella parte più alta vi era un ampio loggione per dar la possibilità di assistere alle rappresentazioni con prezzi più contenuti. Il teatro scomparve da Teramo dopo solo novantuno anni per lasciare posto allo squallido edificio che oggi ospita un cinema e un magazzino commerciale.


Ma questa è un'altra storia ...

«A decretare la fine del Teatro Comunale di Teramo non fu la povertà dell’Italia postbellica, non furono gli impresari, non fu una classe politica, la quale non interpretava   altro   che  le   esigenze   e  i

desideri di un’intera popolazione. Fu la Città, furono i teramani, fummo noi. La congiura non fu di parte, di classe, di partito. Fu collettiva. Le responsabilità non furono solo di un’amministrazione miope, di una direzione artistica inesistente o di un pubblico impreparato. Fu anzitutto l’acquiescenza diffusa a un malcostume sociale per cui la cultura artistica, specie quella drammatica, rientra a tutti gli effetti fra i beni voluttuari, assegnati all’effimero, e come tali facilmente rimpiazzabili»

(Silvio Paolini Merlo, Destino di un Teatro, in Teramani, febbraio 2010)


Scopri altro:

Domus Gnor Paolo Anfiteatro Romano




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