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  • Immagine del redattoreMaria Grazia Tiberii

Il fantastico mondo degli Etruschi … Alla conquista di Roma


#Overthemyworld🌍 Tarquinia VII secolo avanti Cristo.
Nella più splendida delle città dei Rasen viveva Tanaquil, nota ai romani  come Tanaquilla. Era una ragazza ricca, raffinata e ambiziosa, perseguiva con ostinazione i suoi scopi lasciandosi guidare, oltre che dal suo istinto, dai segni divini che, meglio di ogni sacerdote, sapeva interpretare.

Purtroppo al cuore non si comanda … Tanaquil si innamorò del ricco figlio di un famoso ceramista fuggito da Corinto chiamato Luchmon. Un Rasenna imperfetto … Poiché figlio di straniero gli era preclusa la carriera politica.

Una donna ambiziosa non poteva accettarlo!

Dopo il matrimonio i due ragazzi, con Tanaquil alle redini di un carro carico di vasi dipinti, stoffe pregiate e gioielli, risalirono il Tevere per tentare la fortuna in una città primitiva e quasi totalmente priva di regole: Roma.

Percorrendo la via che un giorno sarà nota coma Aurelia giunsero sul Gianicolo. Improvvisamente dal cielo un’aquila planò su Luchmon e, afferrato il suo copricapo con gli artigli, volò fino alla dimora degli dei per tornare, quasi immediatamente, a posarlo sulla testa del giovane sposo prima di sparire nell’azzurro.

Luchmon, temendo fosse un infausto presagio, valutava l’opportunità di tornare indietro. Tanaquil non poteva accettarlo! Si gettò ai suoi pedi e, parlando con voce degli dei,emise un vaticinio: <L’aquila non è che un messaggero divino, la restituzione del copricapo presagisce che Luchmon renderà Roma potente ed eterna.>


Roma non era che un gruppo di capanne di contadini e pastori adagiata sui colli Tiberini, separati da terreni paludosi.

Luchmon, conosciuto come Lucumone, grazie al prezioso aiuto della moglie, riuscì a distinguersi in ogni campo. Divenne talmente popolare che alla morte di Anco Marzio fu acclamato re.

Re Tarquinio fece drenare il terreno acquitrinoso, lo fece lastricare e lo adibì a luogo di incontro e scambi … Il Foro.

Successivamente eresse i tempio di Vesta e la Domus Regia e costruì la Via Sacra, modificò la struttura del Campidoglio e vi fondo’ il Tempio di Giove. Infine delineò l’area del Circo Massimo, dedicato alle corse dei cavalli.

Fu al Circo Massimo che Tarquinio celebrò i suoi trionfi; da quel luogo imponente trasmise ai futuri romani i simboli che a Tarquinia evocavano il potere. Tra questi il fascio littorio con le verghe e l’ascia, la corona d’oro e la quadriga gemmata del condottiero trionfatore.

Il suo dono più grande all’Urbe fu lo scettro d’avorio sormontato dall’aquila d’oro, futuro simbolo di Roma nel mondo.


Mentre re Tarquinio trionfava nelle remote e segrete stanze del suo palazzo Tanaquilla tesseva i suoi intrighi.

Plinio il vecchio narra di un misterioso membro virile apparso tra le fiamme del suo focolare che procurò una gravidanza alla sua fedele ancella. Il figlio di una serva e del fuoco si chiamerà Servio Tullio.

Tito Livio scrive che, mentre il fanciullo dormiva una corona di fiamme circondò la sua testa. Tanaquilla vaticino’ : “Quando verranno i tempi più oscuri per gli Etruschi, solo la luce che ora avvolge il capo di questo fanciullo potrà mantenere sul trono di Roma la stirpe regale dei Tarquini”.

Il bimbo fu adottato e istruito come un principe, addestrato all’intrigo, affinché, alla morte di Tarquinio potesse impossessarsi per primo del trono.

Il vecchio re mori’ in una congiura di palazzo, Tanaquilla tenne nascosto il corpo del marito e per lungo tempo regnò in sua vece. Solo quando ebbe sedato tutti coloro che le si opponevano, anche con il sangue, essa annunciò ai romani la morte improvvisa di re Tarquinio. Per volere degli dei l’urbe aveva un nuovo sovrano: Servio Tullio, il figlio del fuoco.


Nella Roma di fine regno Tanaquilla sarà ricordata come una divinità, in età repubblicana le giovani spose invocheranno il suo nome e si recheranno nel tempio della dea Fortuna a venerare un mantello da lei confezionato per il marito, custodito insieme a un suo ferma capelli.


La storia di Tanaquilla è narrata da Tito Livio nel suo “Ad Urbe Condita”.


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